Una “Generazione Rapsodica”

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Cosa sta succedendo? Qualcosa si muove? Forse “muovere” è una parola esagerata, un vero e proprio movimento non si vede, tuttavia…Si può notare, però, una tensione, un tendere verso, per lo meno un voler essere, che da tempo non si riscontravano. Qualcosa che preme sotto la superficie della confezione luccicante della merce culturale e prende posizione sui margini, nei territori meno controllati, dove diventa possibile un quanto di diversità.
Si riaprono i giochi dell’alternativa letteraria? una avanguardia è in arrivo?

È troppo; s’anche fosse, finirebbe subito schiacciata sotto il carico di responsabilità. Ed è anche troppo presto, poi. Secondo i miei calcoli di “veggente con le traveggole” è ancora un po’ troppo presto. Infatti, se calcoliamo la distanza tra il 1909 del manifesto Futurista e il 1963 della prima riunione della neoavanguardia otteniamo il numero 54; se lo sommiamo al 63, troviamo che – secondo una legge di ciclicità che sarà meccanica, e di sicuro è ottimistica, ma perché no? – la prossima scadenza è fissata per il 2017. Ancora un poco da pazientare, dunque; non scomodiamo l’avanguardia, per il momento. E poi, come sarebbe possibile? L’idea che la letteratura sia fatta di “tendenze”, quell’idea che a Walter Benjamin appariva naturale e solo da domandarsi quale fosse la “giusta”, è ormai caduta nel dimenticatoio ed è probabile che, intervistato in proposito, l’uomo della strada confessi di non saper nemmeno cosa sia, forse al massimo, se è ben informato, direbbe che adesso si dice trend e riguarda i cool hunters. In ambito letterario, dopo l’inizio degli anni Novanta e l’avventura della “Terza Ondata”, presto affondata dai dissidi interni, la proposta di una alternativa non è più riuscita, non dico ad avere l’attenzione della stampa, ma a venire adeguatamente formulata. Per altro è cambiato secolo e addirittura millennio, per cui quel “terza” andrebbe ormai riaggiornato. (Personalmente, ho provato a lanciare il termine “catamodernità”, ma il risultato è stato un nulla di fatto). Niente da fare: a controprova valgono le rivendicazioni più recenti dei TQ, i quali chiedevano spazio, sì, come generazione che esige di emerge, ma aggiungevano, con una smorfia di disgusto, “per carità, non siamo una tendenza”… Del resto l’impressione è che, anche ad avere idee chiare e mente libera, da una parte le strettoie editoriali sempre più ad imbuto, dall’altra la confusione e l’aleatorietà dei destinatari, fanno sì che qualsiasi riconoscimento diventi altamente problematico. Eppure, anche a non voler esagerare, qualcosa si muove. Spunti minimali, però interessanti. I testi qui riuniti denotano almeno tre cose: la prima è la voglia di stare insieme sullo stesso veicolo e addirittura su di un veicolo piuttosto vecchio e malmesso come la forma-rivista e la forma-antologia.

Credevate che ormai la legge della concorrenza con il suo “mors tua vita  mea” avesse invaso anche il mondo delle scritture inoculando in ogni autore la vanità singola di arrivare a scapito d’altri, anzi senza saper neanche ch’esistano? La corsa al successo, dove alla fine vince sol’uno, come tanti spermatozoi ciechi. E invece ecco che ritorna l’uso di uno strumento collettivo – un’opera di uguali distinti – e dunque non solo la consapevolezza che nelle situazioni difficili e critiche (com’è questa che attraversiamo) non ci si salva mai in solitaria, ma altresì la sensazione di avere obiettivi comuni e percepire un senso di condivisione, seppure vaga e non costrittiva. La seconda cosa è l’insoddisfazione: e insoddisfazione su entrambi i lati, sia dalla parte del mercato che da quella dell’antimercato, intendo dire, cioè, sia per il romanzo di consumo che per la poesia di sfogo, due estremi che si toccano benissimo, sebbene sul piano della rendita economica siano davvero agli antipodi. Sembrano il corpo e l’anima: il primo promette notorietà presa al volo, la seconda l’autenticità dell’intimo. E però entrambi, il romanzo di consumo e la poesia di sfogo, sono dominati da agganci emotivi e nella sostanza compensativi, da esibizione narcisistica e evasione consolatoria; sicché per entrambi sarebbe giusto recitare il “mai più” e guardare altrove, oltre gli steccati degli schemi. La terza cosa è la ricerca del punto critico: ci troviamo infatti nell’epoca (l’ultima trovata è dirla “fluida”) in cui tutto è permesso e il godimento obbligatorio, per cui le vecchie provocazioni di marca avanguardistica appaiono assorbite come in un muro di gomma; ma questo è vero solo fino a un certo punto. È ciò che sostiene chi di fare opposizione ha perso la voglia o ha calcolato l’inconvenienza. In realtà, il problema è scoprire il “punto critico”, cioè il limite taciuto, che non è soltanto il guadagno privato, ma anche il tabù nascosto sotto le vesti del “volemose bene” o magari del politicamente corretto. La ricerca del punto in cui l’omologazione va in pezzi è difficile, lo so, ma in fondo è l’unica cosa che valga la pena. Ma adesso è venuto il momento di entrare in argomento una buona volta e assolvere il compito del prefatore andando a presentare quel che lo seguirà. Abbiamo qui in raccolta antologica il meglio della rivista “Rapsodia”. Se si guardano le copertine e l’impaginazione della rivista, nonché dell’antologia stessa, non è possibile non notare la valenza dell’intervento grafico, iconografico e visivo. Questo intanto segna la vocazione a varcare i confini tra le arti e segna anche l’interesse per l’immagine, la consapevolezza di quanto l’immagine abbia un posto di primo piano in quello che si chiama, non per nulla, “immaginario collettivo”. E segna anche la volontà di superare la monotonia della linearità, valendo così a dire che non è solo il cosa, a essere significativo nella scrittura, ma anche, se non più, il come. Nel gusto per l’immagine provocatoria e ibrida si affaccia una eredità novecentesca, che è prima di tutto la lezione del surrealismo. Non a caso, uno che la sapeva lunga quanto ad avanguardie, Edoardo Sanguineti, ha scritto che «il surrealismo è il fantasma che giustamente perseguita ogni avanguardia ulteriore, e le nega pacifico sonno».

E mi pare che anche qui si insinui quella influenza inquietante. Non tanto per l’automatismo, quanto per un certo tono underground, un certo humour noir, una dose di trasgressione, una certa impronta surrealista si fa vedere nelle pagine di “Rapsodia”. Non fosse altro che voglia di libertà creativa, evidenziata nel titolo stesso (la rapsodia come composizione che scarta dalla successione monotona con estro brioso), e con essa l’abbandono delle regole delle “scuole per aspiranti narratori”. Di qui la mescolanza dei generi e delle esperienze, la poesia e la prosa alternate senz’ordine e accompagnate sullo stesso piano dal contributo critico-teorico. Quanto al radicalismo politico, questo non può manifestarsi, ai nostri tempi di degrado della politica come professione (e interesse privato), non può manifestarsi, dico, in altro modo che nella indipendenza di giudizio, ovvero prendendo ciascuno la propria responsabilità al di fuori delle etichette partitiche, in certo senso “dal basso”. La scrittura, come critica dell’identità e dei generi prestabiliti, appare lo strumento più idoneo per provare, senza programmi magniloquenti ma con costante erosione, a liberarsi dal controllo informatico e dall’inserimento nelle pratiche omologanti che gli autori qui riuniti sentono come il nodo dell’oppressione.
Che poi singolarmente i testi, ai miei occhi di dinosauro sperimentale, possano avere dei limiti è scontato in partenza e sarebbe strano il contrario. Personalismo soggettivo? linguaggio giovanilistico? soluzioni scontate? Ci saranno pure, ma in qualche modo per forza di cose. Il postmoderno non è passato invano nei nostri lidi, suggerendo ripetizioni non traumatiche e semplificazioni scorrevoli; però anche il “nuovo realismo” oggi in voga (con tanto di New Italian Epic) propone sirene seducenti non di poco tese ad invischiare in un perbenismo umanitario, tale da uccidere ogni invenzione. Riprendersi dall’appiattimento e dall’assuefazione al meno peggio è arduo e complicato, una davvero lunga marcia. Gli autori di “Rapsodia” non possono far altro che mettere in luce i problemi ed esibirli sulla propria pelle. Un esempio per tutti è il problema della trasgressione sessuale: era un cavallo di battaglia del surrealismo (e i nostri lo sanno bene, come dimostra la presenza di Bataille nel loro pantheon), ma che fine ha fatto nell’epoca del permissivismo e dell’imperativo di godimento? È chiaro che, da un lato, i giovani sentono ancora il richiamo della libertà di rapporti e lo spettro di una famiglia vissuta come proprietà privata e “maso chiuso”; però, dall’altra parte, si accorgono delle “derisioni pornografiche” e di una liberazione solo virtuale in realtà produttrice di depressione e di frustrazione, per così dire di affiliazione alla macchina. Che poi, nella situazione attuale, dove vengono tenuti come enorme “esercito di riserva” e come mandria di consumatori, i giovani si rendano conto di essere dei meri corpi, se non la “carne da macello” della globalizzazione, certo grumi di facoltà sprecate e di pulsioni desideranti disattese, è la “chiave di risveglio” che diventa base decisiva di qualsiasi rivendicazione. Magari, assumendo a guida testuale l’ironia e l’autoironia; come dire, un pizzico di dadaismo – che non sarebbe all’indietro rispetto al surrealismo, ma nella situazione attuale, invece, in avanti –;un consiglio che darei sebbene mi renda conto dell’inanità di qualsiasi pretesa di indicare vie o di metter brache al futuro. Di guru straparlanti non ce n’è assolutamente bisogno.

Vediamo piuttosto cosa c’è. C’è, per l’intanto un termine eletto a titolo: Rapsodia. Che ha, di suo, è vero, più d’una coloritura romantica, da composizione musicale trascinata qua e là dall’emozione, magari con esecutore spettinato e scamiciato… Perfino, come molte rapsodie ottocentesche, con risvolti patriottici. Questa indicazione stazionerebbe ancora nel senso comune, ma c’è dell’altro: c’è un riferimento al rapsòdo, l’antico cantore; nel qual caso si leggerebbe come un ritorno all’origine dell’oralità – senonché, qui, pare sicuro l’ancoraggio alla scrittura. E allora? Come si rapsodeggia qui? Mi pare davvero la soluzione preferibile l’incentivazione dell’aggettivo: la scrittura è “rapsodica”, cioè frammentaria e discontinua. E il libro, con tutti i suoi svariati autori, si presenta infatti sotto il segno del pluralismo. Un pluralismo dinamico, alieno da dogmi, variegato ma non arreso. Recapitolando, abbiamo dunque a che fare con una generazione rapsodica. Anche nel senso della ricerca impregiudicata e del movimento a tentoni. Rapsodica e – se mi si passa l’accostamento con un altro termine dotato di bisticcio consonantico – rabdomantica. Ma, forse, meglio ancora abbreviare, per arrivare alla formula portatile “rapso”: che rimanda al rap (un ritmo insistente che anima alcune pagine dell’antologia) e un po’ anche, per metatesi, al “raspare”, una ricerca nella dura terra, un suono sgradevole e dissonante.
Ma, insomma, cosa sta succedendo? Sarà mica che i giovani stanno ringiovanendo?

Magari: questa prefazione valga come augurio, un caloroso “ancora uno sforzo”. Perché, se i giovani fossero finalmente giovani, potrei finalmente raggiungere la mia vera età e darmi allo stile tardo, senza essere sempre costretto a reclamare (nel disinteresse generale) il momento scaturente dell’inizio!

*Prefazione a “Rapso X” a cura di Francesco Muzzioli (Roma, 17 gennaio 1949) è un critico letterario e docente universitario italiano. Si è laureato in lettere con una tesi sulla poesia sperimentale italiana presso l’Università di Roma “La Sapienza nel 1971, dove è attualmente docente di critica letteraria e letterature comparate.

Una “Generazione Rapsodica”